Quello che si prova è ancora un passaggio. Malinconico, triste e disperatamente nero.
Il cielo è stanco e inerme di fronte alle sciocchezze insensate dei ricchi.
La casa, per questi, è grida. Soltanto grida.
Spiffera ovunque il freddo maleducato. Non chiudo, non vedo, non sento.
L’insulto è di gusto, il riso spietato, la critica sovrana e la beffa dei desideri regina indiscussa.
C’è povertà, forse cattiveria, tra le luci dell’albero e le statue dipinte e plastiche.
Il tempo passato ha condotto al riparo da un totale affidamento.
Da questi sovrani zoppi e addormentati.
Ma ora dopo il restauro, c’è nebbia e la pietra levigata è liscia e trasuda bellezza.
Dove toccano queste mani, non è perfezione, perlomeno è distante dal grottesco e da ciò che fa morire il cuore.
L’incubo quotidiano fugge smosso da parole ritmiche, quale dono pulito e amorevole, che cullano e mostrano differente marchio.
Tuttavia la stirpe è cosa dura a seccare.
Ancora dunque passeggio tra rovine, fuori così eleganti, dentro sepolcri e cenere.
Meglio non promettere. Meglio che la preghiera diventi umana e non macerata su pagine contorte.
Immagino di aver inventato tutto, come sussurrano voci vicine, ma questa è la trappola.
Ogni strumento insiste nella sua storia e si vorrebbe intonare identico dramma su diverse corde e diversi toni.
Ancora pur essendo in questo, suono e cerco il mio spartito e quando la musica inizia è casa. Finalmente.
Vicinissmi tamburi e coperchi percuotono monotoni e, di tanto in tanto, rivedo quel piccolo flauto nel suo angolo rosa.
Con un bacio e una carezza lo premio per il coraggio indomito. Per la speranza di aver sopportato e creduto che fosse bene.
Che ci fosse nel repertorio il bene.
Federica
#lentamenteaudaci @fede.poetry
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